Recensione in Rocklab

Cinque anni, e "The Umbersun" è già stato praticamente dimenticato. Gli Elend, del duo Hasnawi/Tschirner, sono e sono stati la realtà più promettente della Musica; se vogliamo, più precisamente di quella neoclassica. In passato hanno sfiorato la perfezione, si sono chiusi in un silenzio forse voluto, e ora si presentano con quest’offerta: "Winds devouring men", pubblicizzata dalla Prophecy come un disco indispensabile a chi ama i Dead Can Dance di "Within the realm of a dying sun". Ma non c’è storia, davanti agli Elend qualsiasi gruppo, anche i capostipiti del genere ambient-gotico sembrano roba new age da dilettanti. Davanti al talento del soprano Nathalie Barbary anche Lisa Gerrard dei tempi migliori scolorisce e lascia il passo. "Winds devouring men" è il capitolo più alto, anche rispetto a "The Umbersun", della storia della musica neoclassica degli ultimi 20 anni. Il livello di composizione, ormai completamente originale e distaccato dai maestri barocchi e romantici che caratterizzarono i primi passi della loro discografia, raggiunge pura sostanza, pura bellezza e pura efficacia. C’è da aspettarsi un’esperienza emotiva che cambia lo stato d’animo dell’ascoltatore, il quale più è disposto ad entrare nel concept dell’opera, più penetrerà e verrà invaso dalla nera, melodica, potente, psichica energia presente nel disco. Aprendo il libretto si vede che le intere canzoni si basano su estratti da un unico poema, scritto dal duo stesso, proposto con una sofisticata e sperimentale tecnica grafica, che rende perfettamente anche i giochi di rimandi e sovrapposizioni delle voci. Il tema è il viaggio, la visione come unico strumento dell’anima per il viaggiatore-poeta. "Vision is all that matters" è il verso centrale di tutto il poema. La nera disperazione proposta dagli Elend questa volta mette la melodia pura e la voce calda, intensa, trascinante, di Renaud Tschirner, narratore di un’oblio di sublime bellezza, contro la sperimentazione di un industrial soffocante, intenso, ma che riesce a vestirsi di poesia. Per capire cosa sia un capolavoro basta ascoltare "Under war-broken trees": il respiro lamentoso di una macchina di cui sentiamo gli sfiati e l’oppressiva percussione esplodono nel cantato sostenuto e ascendente di Renaud; lo spazio si allarga e i violini distendono note dolenti sul tempo di un clavicembalo che produce accordi dall’armonia talmente perfetta da essere inesprimibile. La canzone procede nella sua meravigliosa melodia per poi spegnersi pian piano in una solenne e monocorde cadenza regolare, portata avanti dal sussurrato oscuro di Alexandre Hasanoui e da sotterranei andamenti crescenti dei violini che si spengono definitivamente sullo stacco più industrial del disco, dove il rumore delle macchine a percussione elettronica si fa ossessivo, spietato e regolare. A sorpresa il tocco drammatico del clavicembalo improvvisa un dualismo razionalità/dramma, sublimato poi dal culmine in crescendo dei versi finali e dell’orchestra intera. Armonia pura e senza paragoni. Il disco propone diverse cromature e intensità, talvolta stupisce per improvvise aperture di abissi neri e cupi, con gli archi tesi sulle ottave più alte e infuriati, perfetti, quasi inumani; altre volte capita un’intera canzone che suona come un ispirato arpeggio di clavicembalo con cantato sognante. Il disco si chiude come su "The Umbersun" con "A staggering moon", una strumentale onirica, profonda, da oblio della mente, quasi a chiudere il cerchio del delirio visionario di un viaggiatore. Potrebbe essere la visione del Vecchio Marinaio di Coleridge, può essere la mente nostra moderna quando ci vede viaggiatori alla ricerca della propria visione, per mutare la realtà secondo la forma dei propri sogni. Si può discutere di tutto con i testi degli Elend, ma non si può discutere il talento di un genio compositivo e il riconoscimento di uno dei dischi che non potrò mai raccomandare abbastanza come capolavoro tra i più importanti dell’ultimo decennio. "Winds Devouring Men" merita in pieno un nove, consapevole che oltre la perfezione esiste solo il sublime.

Massimiliano Monti