Recensione in Resurrecturis

Sono trascorsi appena un anno e qualche mese da Winds Devouring Men, quinto album degli Elend, che aveva sancito il ritorno sulla scena di uno dei progetti seminali e tuttora ineguagliati in campo gotico orchestrale. Ma Winds Devouring Men rappresentava anche il primo lavoro di un ciclo di ben cinque album di cui Sunwar the Dead è il secondo capitolo. Non nascondo che, sebbene la sua uscita fosse stata annunciata ormai da qualche mese, l'arrivo di quest'album mi ha un po' spiazzata e al momento di affrontare il primo ascolto mi sono addirittura sentita impreparata ad ascoltare già adesso nuove composizioni. Ho veramente temuto che il gruppo avesse affrettato un po' troppo la pubblicazione di quest'album, forse avvertendo la pressione dell'impegno assuntosi di realizzare ben cinque lavori.

Winds Devouring Men era stato da molti percepito come un'opera più intima, nella quale gli Elend avevano prediletto passaggi molto più melodici, soprattutto in confronto ad una produzione passata che verteva su una ricerca sonora alla cui base vi era il concetto di violenza e nella quale la densità strumentale aveva raggiunto livelli estremi. L'album manteneva, tuttavia, qualche legame con il passato negli aspetti orchestrali di impronta classica, nonostante avessero rivestito un ruolo più marginale; piuttosto, facevano il loro ingresso per la prima volta alcune sperimentazioni sonore che in questo Sunwar the Dead vengono abbondantemente riprese al punto che costituiscono il tessuto musicale dell'intero lavoro. Infatti le influenze dichiarate vanno dal sonorismo di Penderecki alla musica elettronica di Stockhausen e Xenakis, al percussionismo impressionista di Eötvös.

Fatta eccezione per alcuni passaggi, il senso di pesante densità sonora tipica degli Elend si è in parte persa in favore di composizioni altamente complesse che in numerosi casi sfiorano addirittura la "a-musicalità", come in "The Hemlock Sea", l'esempio sicuramente più estremo in tal senso, dove l'unico elemento di melodia è rappresentato dalle linee vocali, mentre l'aspetto sonoro è affidato ad una base percussiva completamente sperimentale. La maggior parte dei brani che compongono l'opera sembra essere il prodotto di una minuziosa scomposizione e ricomposizione dei suoni realizzata attraverso un attento studio del suono prodotto dagli strumenti utilizzati, così da ottenere composizioni strutturate su una molteplicità di livelli sonori che giocano sulle dissonanze, sulle vibrazioni, sulle armonie e sulle risonanze, a volte creando passaggi ("The Hemlock Sea", "A Song of Ashes", "Laceration") dall'ossatura minimale, molto spesso costruendo brani dalla forma più corposa ed emotivamente più intensi (Sunwar the Dead, "Ares in their Eyes", "La terre n'aime pas le sang"). Rimane del tutto invariata la forza oscura che ha sempre caratterizzato i lavori degli Elend.

Per ottenere tutto questo, Renaud Tschirner, Iskandar Hasnawi e Sébastien Roland sono stati affiancati dalla soprano Esteri Rémond (che interviene da solista nei brani nei quali lo stile Elend è più riconoscibile: "Chaomphalos", "Poliorketika" e "Threnos"), da David Kempf (violino solista e viola solista) e da un ensemble di cinquanta musicisti, che formano l'Ensemble Orphique. Non so dire se gli ammiratori del progetto austro-francese rimarranno in generale soddisfatti o delusi da un lavoro di questo tipo, soprattutto dopo un album relativamente calmo come Winds Devouring Men, ma posso certamente affermare che non ha deluso me, che ha saputo far svanire in fretta i dubbi iniziali, che ha saputo appagarmi. Certo, resta il fatto che non è per nulla un album facile "da digerire", che le composizioni sono di gran lunga le più ostiche che ci siano mai state offerte dagli Elend, ma sono anche dotate di un forte fascino che penetra nel profondo. E per il momento penso che ciò sia sufficiente, senza sentire il bisogno di chiedersi se sia questa la direzione musicale da loro intrapresa.

(c)Laura