Recensione in Ondarock

Elend è uno dei progetti più misteriosi e affascinanti del gotico europeo. Un ensemble franco-austriaco, la cui line-up ruota intorno ai due compositori, cantanti e polistrumentisti Iskandar Hasnawi e Renaud Tschirner, con l'apporto di Sébastien Roland, del violinista David Kempf e della soprano Nathalie Barbary aveva fatto perdere le sue tracce nei cinque anni trascorsi da The Umbersun, terza parte della trilogia "tenebrosa" che doveva essere nell'intenzione iniziale dei musicisti l'unica testimonianza sonora della sigla Elend. Invece, a sorpresa, Hasnawi e Tschirner tornano con un album che a quanto si dice apre un nuovo ciclo, insistendo nelle rarefazioni notturne e apocalittiche dei loro tre lavori precedenti, smussandone però gli angoli dagli elementi più violenti (eliminando ad esempio le "screaming vocals" di cui erano costellati i dischi della trilogia). A tutti gli effetti Elend affonda le proprie radici in quelle oscure evoluzioni (o degenerazioni, a seconda dei gusti) del metal, quali il black, il doom, e simili, ma ha eliminato del tutto le chitarre e la batteria, lasciando l'intera scena ad arrangiamenti cameristici di raffinata austerità. Punto di contatto con i generi sopracitati è soltanto il mood, il tono "horror", intriso di immagini tenebrose e richiami occulti. Immaginatevi i Dead Can Dance che re-interpretano le canzoni dei Type O Negative e allora avrete un'idea, seppur vaga, della musica contenuta in questo album.

Winds Devouring Men è basato su un "concept" scritto da Hasnawi, che prende spunto dall'epica classica, specie dall'Odissea, per dipingere una "allegoria del tempo, della morte e dell'oblio" come l'hanno definita i suoi autori, che si evolve in 11 brani articolati e complessi, dall'andamento solenne, ieratico, avvolgente. L'apertura è affidata alla drammatica progressione di "Poisonous Eye", con tamburi medievali e cori d'oltretomba ad affiancare l'alta declamazione del cantante. Da qui in poi, a partire da "Worn out with dreams" si affonda senza via di scampo in un abisso di desolazione, scandito spesso dalle note struggenti del violino e avvolto da tenui volute di elettronica. "Charis" è forse il capolavoro dell'opera, una meravigliosa sonata romantica, con gli archi che volteggiano in una melodia di rara bellezza, e il canto rassegnato di Tschirner che fluttua con una lievità e una classe che rimandano davvero ai grandissimi Dead Can Dance. Le melodie medievaleggianti del duo australiano sono richiamate a gran voce anche da "Under war-broken trees", salvo essere storpiate da cacofonie industriali che appaiono e scompaiono, fino a rendere questo forse il pezzo più inquietante in assoluto dell'opera: le esplosioni soniche delle chitarre che ci si aspetterebbe da un brano simile vengono qui sostituite da pesanti rintocchi di piano, ma la sostanza è quella: paura, pura e semplice: il canto è lasciato quasi sempre ad aggirarsi in uno scenario desolato e disumano, circondato di rumori spettrali e melodie maestose, che non fanno che accentuare il senso di spaventosa solitudine. La lunga "Away from barren stars", che introduce rarefazioni ambient che rimandano ai Lycia, si apre in un crescendo di puro caos, tra campane funeree, tamburi marziali e dissonanze stordenti fino a implodere in un rumore informe e infernale. Tutto messo in scena con grande effetto per preparare l'ingresso alla title-track, una parentesi sperimentale che affianca ai rumorismi e alle dissonanze un unico, tesissimo drone violinistico.

Nella seconda metà del disco, i brani peccano forse di una eccessiva tendenza a ripetere senza sostanziali balzi di creatività tutti gli spunti accumulati nella prima parte. Meritano comunque una particolare citazione brani come l'operistica "The plain masks of daylight" e la visionaria "A staggering moon". In chiusura gli Elend piazzano un altro gran colpo sconfinando senza mezzi termini nella musica rinascimentale, con "Silent slumber", un sommesso adagio da camera solcato dai vocalizzi della soprano Nathalie Barbary, degno dei momenti più incantati e struggenti dei Black Tape For A Blue Girl.

Per la loro peculiarità all'interno della scena "gotica" contemporanea, si consiglia vivamente l'ascolto di questo progetto estremamente ricco e raffinato. In particolare, andrebbero ascoltati soprattutto da chi è convinto che ciò che in ambito rock viene comunemente etichettato come "goth" siano le pagliacciate di gente come Marilyn Manson o altri personaggi ormai utili al massimo a scandalizzare le mamme e le nonne dei teenager Mtv-dipendenti: gli Elend fanno musica "nera", ma in loro non c'è nessuna blasfemia, nessuna violenza gratuita. L'arte degli Elend è puramente concettuale, è un'arte fatta di paura e disperazione, ma dove tutto è rallentato e distante, una musica "nera" sospesa però in un limbo da cui l'inferno si intravede soltanto in lontananza. Ma soprattutto gli Elend ci ricordano come da quando apparvero i due pionieri Brendan Perry e Lisa Gerrard a dettare le loro regole, chi vuole fare musica "gotica" nel vero senso della parola deve essere anzitutto un musicista sopraffino.

Recensione di Mauro Roma (7,5 /10)